Nel film gli androidi si recano sulla terra per cercare risposte sulla loro origine e sul loro futuro, e il film da molto spazio sia a questa ricerca, che allo scontro tra Deckard e ciascuno di loro, scontro che termina con il famoso monologo “Io ne ho… viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione! E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei… momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo… di morire” (monologo che nel libro non esiste e che è stato improvvisato sul set da Rutger Hauer), in cui l’androide viene fatto vedere semplicemente come un’altra forma di vita che ha agito per cercare di sconfiggere la morte, ma che alla fine ha dovuto accettarla.
Nel libro e nel fumetto, invece, la caccia che Deckard fa del gruppo di androidi è solo un tassello di quello che è un vero scontro (anche se non sempre armato) di civiltà differenti, con quella androide che cerca di conquistarsi un proprio spazio dove potersi difendere dalla violenza degli umani, e con gli umani che cercano di uccidere (o, per usare il termine Dickiano, “ritirare”) tutti gli androidi per sconfiggere il timore che hanno di essere sopraffatti da quelle creature artificiali. L’ambiente che viene descritto è quello di un pianeta terra con l’aria intrisa di polvere radioattiva da cui gli umani scappano emigrando nelle colonne marziane. Le città sono semi-deserte, molte specie di animali sono di fatto estinte e la maggioranza degli umani, seguace della religione del mercerianesimo, compra e accudisce animali artificiali, per coltivare la capacità di empatia (che viene definita come l’unica caratteristica che separi l’umano dall’androide).
Alcune situazioni descritte nel libro, nel fumetto e non nel film che mi hanno colpito molto sono state: in primo luogo il fatto che gli umani usassero una sorta di apparecchio che poteva infondere ogni tipo di emozione e che programmassero quali emozioni sentire all’interno della giornata; poi ciò che si intendeva con la parola “speciale”, ovvero un essere umano a cui la polvere radioattiva avesse causato modifiche nel codice genetico e a cui, quindi, veniva negata l’opportunità di emigrare nelle colonie marziane perché, in quei luoghi, la società umana voleva solo persone “normali”; infine il fatto che il possesso di animali veri fosse ritenuto un vero e proprio status symbol, che gli umani che possedevano sono animali artificiali cercavano di fare di tutto per nasconderlo perché se no “chissà cosa potrebbero pensare i nostri vicini” e che esisteva un catalogo in cui si dava un prezzo specifico ad ogni specie e razza di animali e su quel prezzo stabilivi, di fatto, la classe sociale a cui apparteneva chi possedeva quell’animale.
Questa storia mi ha dato veramente tanto, sia a livello di emozioni sia di domande, dicevo prima. Domande come:
“Quante volte agiamo solo per soddisfare le aspettative di altri su di noi?”
“Quante volte neghiamo la nostra individualità, solo perché abbiamo paura di non essere accettati dal contesto sociale?”
“Quante volte mentiamo a noi stessi e agli altri, solo per paura dei giudizi che gli altri possono dare?”
“Quanto ci vorrà perché noi si possa imparare a guardare chi è diverso da noi, non come una minaccia, ma come qualcuno attraverso cui si ha una possibilità di crescere assieme?”
Ogni giorno osservo la realtà che mi circonda e, sempre più spesso, mi viene da chiedermi quanto lontano avesse visto Philip K. Dick, ormai quarantacinque anni fa.
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