Il 22 luglio 2025, 17 giorni dopo il concerto evento in cui dava l’addio alle scene, è morto Ozzy Osbourne.
Da quel momento, in rete, sono spuntati innumerevoli notizie, tributi, attestati di stima e d’amore sia per lui che per la sua musica, critiche per la persona che era stato e chi più ne ha più ne metta.
In questo articolo, voglio scrivere cosa è stato Ozzy Osbourne per me e cosa è diventato nel corso del tempo, mano a mano che scoprivo qualcosa in più del suo mondo.
Il primo contatto.
Era l’annata scolastica 1987/88 ed io facevo il secondo anno del liceo scientifico quando, parlando con un mio compagno di classe, lui mi parla di un gruppo chiamato Black Sabbath, attivo fin dal 1970, e me ne dice meraviglie, raccomandandosi di ascoltare gli album con Ozzy Osbourne alla voce perché dopo “non sono più stati i Black Sabbath”.
È stato così che, un giorno, in un negozio di dischi, ho comprato Master of Reality.


Il primo impatto è sconvolgente.
Quella musica cupa, distorta ed oscura, mi risuonava dentro in maniera enorme e quella voce, straziante e straniata, cantava di molto di ciò che provavo in quegli anni, dalla mia avversità per le religioni di ogni tipo al senso di vuoto lasciato da una profonda solitudine e, per questo, ha saputo conquistarmi fin da subito.
La musica dei Black Sabbath

Nel corso del decennio successivo, mi sono quindi procurato tutti gli album del periodo dei Black Sabbath con Ozzy alla voce e, in più, anche una videocassetta in cui era stata registrata una data del tour di Never Say Die.
Guardando quel concerto, ciò che mi aveva più colpito era proprio quel cantante con gli occhi spiritati che approfittava di ogni momento in cui non stava cantando per far eccitare il pubblico il quale, a sua volta, rispondeva all’unisono.
Per di più la musica dei Black Sabbath, in quegli anni, era diventata la colonna sonora perfetta della mia adolescenza, sia per le loro sonorità che per i testi delle loro canzoni in cui c’era veramente di tutto: dalle storie d’orrore, alla protesta sociale; dalle storie di droga, alle canzoni con dichiarazioni d’intenti sul fatto che il mondo non lo avrebbe cambiato; dalle canzoni sui vari tipi di disagio fisico e mentale, a storie sulla magia e sul mondo occulto e così via discorrendo. Inoltre il tutto veniva suonato con l’attitudine di chi voleva scioccare e far inorridire quel mondo dove il perbenismo e l’ipocrisia (che non ho mai smesso d’odiare, allora come ora, come poche cose al mondo ) la facevano da padrone (e questo capitava ancora alla fine degli anni ’80 e, in modo ancora più marcato, negli anni ’70 in cui i Black Sabbath avevano pubblicato la loro musica).
È stato così che, negli anni tra il 1989 ed il 1991: mi sono procurato tutti gli album dei Black Sabbath, dall’esordio ad Heaven and Hell (avevo preso anche il primo album dell’era Ronnie James Dio perché, in una loro compilation acquistata poco dopo Master of Reality, ero stato molto colpito dalla canzone “Lady Evil” che faceva parte proprio di quell’album) e li ho ascoltati a ripetizione fino al punto di impararli a memoria in ogni singola nota quasi tutti (le uniche eccezioni sono state Vol. 4, Never Say Die ed Heaven and Hell di cui, tra tutti e tre gli album, non ho memorizzato completamente un 6 o 7 canzoni).
In quel momento, però, non avevo ancora incominciato a seguire la carriera di Ozzy solista perché, da quanto avevo letto su alcuni articoli di critici musicali, mi era arrivata l’idea che fosse stato una sorta di ripiego e neanche tanto riuscito.
La musica di Ozzy solista.
Parte 1: la critica allontana, la critica avvicina.

Siamo negli anni tra il 1992 ed il 1994 e io sto facendo l’università a Milano. Un giorno, in edicola, vedo una rivista intitolata “Satisfaction” con in copertina il titolo di un articolo “Hard & Heavy: 100 dischi da avere”.
Leggendo le recensioni dei vari dischi su questo articolo, avrei trovato molti spunti per ampliare i miei gusti musicali e, per quanto riguarda la musica di Ozzy solista, avevo letto quelle di Blizzard of Ozz, Diary of a Madman, Speak of the Devil e del Randy Rhoads Tribute.
Nel leggerle, la recensione che più mi aveva colpito era proprio quella di Diary of a Madman, per cui avevo deciso di partire proprio da quel disco per iniziare ad esplorare quanto Ozzy aveva prodotto nei suoi anni da solista.


Anche questa volta quello che esce dalle casse dello stereo è qualcosa di incredibile. Ogni singola canzone ha qualcosa, sia a livello di musica che di testo, che mi colpisce profondamente, ma il vero sconvolgimento arriva quando ascolto l’ultima canzone del disco, con il suo modo di descrivere le sensazioni scatenate dal rapporto tra una persona e la propria follia, che rende il disco, fin da subito, uno dei miei dischi preferiti di sempre.
Mi trovo quindi a prendere anche gli altri tre album indicatimi dalla rivista e ad ascoltarli a ripetizione e, per ciò che mi riguardava, già solo questi album bastavano a far entrare anche Ozzy da solista nel novero dei miei artisti preferiti di sempre ma, ancora una volta, le recensione non mi avevano fatto venire voglia di esplorare il resto della sua carriera solista perché, come scrivevano, “dopo la morte di Randy Rhoads Ozzy nulla era stato più lo stesso” lasciando intendere che, da quel momento in poi, la qualità della musica sarebbe calata.
Parte 2: e il passaparola di un amico abbatté il pregiudizio dei critici.
Sempre nel periodo degli anni universitari, mi trovo spesso a parlare con un mio compagno di studi, con cui diventiamo amici e ci scambiamo pareri e informazioni musicali.
Quando il discorso capita sui Black Sabbath e sulla carriera solista di Ozzy, e quando io gli dico che non sono andato oltre l’era Randy Rhoads, lui mi risponde dicendomi che mi sono perso più di qualcosa e, per dimostrarmelo, mi fa ascoltare No More Tears.


Ancora una volta mi trovavo davanti ad un album pazzesco dove, fin da subito, più di metà dell’album mi colpisce al punto di volerlo imparare a memoria e che, mano a mano che lo riascolto, mi entra dentro con ogni suo singolo pezzo.
Ancora una volta Ozzy riesce a stupirmi ed a regalarmi un capolavoro indimenticabile e, da quel momento, decido due cose: la prima, che avrei recuperato tutti i suoi album che mi mancavano; la seconda, che avrei continuato a seguirlo fino alla fine.
Praticamente, da un lato, ogni volta che uscivano notizie su un nuovo album da studio di Ozzy, ne aspettavo con trepidazione l’uscita per potermelo andare prima ad acquistare e poi ad ascoltare e, dall’altro, approfittavo dei momenti in cui avevo abbastanza soldi in tasca per poter recuperare quello che mi mancava.
Ad oggi: della parte di carriera di Ozzy prima del 1994, tra album da studio e album dal vivo, mi manca solo “Just Say Ozzy” mentre, della parte dal 1995 in poi, mi mancano i suoi due album dal vivo (Live at Budokan del 2002 e Ozzy live del 2012) e, devo dirlo, a parte un paio di occasioni, i suoi album mi sono sempre piaciuti.
Ozzy, il principe delle tenebre?
Fin da quando ha iniziato coi Black Sabbath e, ancor di più, durante la sua carriera da solista, Ozzy è sempre stato un personaggio tanto amato dai fan della sua musica, quanto disprezzato dalla cosiddetta “gente per bene”, che lo vedeva letteralmente come il diavolo in persona.
Eccessivo in ogni cosa che faceva, Ozzy rappresentava proprio tutto ciò che la società bigotta ed autoritaria dell’epoca tacciava come sbagliato, immorale e deplorevole e, proprio per questo, ha raccolto la stima e l’affetto di tutte quelle persone che, pur non facendo nulla di illegale, non seguivano i codici estetici e comportamentali che la società degli anni ’70 ed ’80 cercava di imporre e, per questo, erano considerati dei reietti.
Dal mio canto, quando sentivo i tentativi della “brava gente” di screditarlo raccontando episodi della sua vita come il fatto di aver staccato a morsi la testa di un pipistrello durante un concerto, o quella di una colomba durante un incontro per la firma di un contratto discografico, rispondevo che, di lui, mi interessava la musica. E, quando mi chiedevano come facessi ad ascoltare quel rumore e quelle canzoni che inneggiavano al demonio, io dicevo: “ma le hai mai ascoltate?”
L’autobiografia “Io sono Ozzy”, e la chiave di volta per interpretare la sua vita.
Siamo all’inizio del 2024 ed è un giorno in cui sto guardando su YouTube video di canali di informazione legati alla musica, quando vedo il link per uno speciale su Ozzy Osbourne e sui Black Sabbath, con Enrico Silvestrin, Federico Traversa, Francesco Conte e Tony Dolan pubblicato nel 2021, che durava quasi due ore e mezza.
Ovviamente clicco sul link e lo seguo mentre sto facendo i miei lavori di trasporto della mia collezione musicale da formato fisico a formato liquido e, lungo la diretta, due notizie catturano particolarmente la mia attenzione:
- L’esistenza di un progetto tributo ai Black Sabbath, intitolato Sabbato Nero, in cui una serie di star della scena metal contemporanea rendeva omaggio alle canzoni dei Black Sabbath e i cui proventi sarebbero andati in beneficienza all’ospedale Spallanzani di Roma per aiutare i medici che, ai tempi erano in lotta continua contro il Covid-19, che ovviamente ho acquistato al volo.


- La presentazione dell’ultimo libro biografico scritto, in quel momento, sulla vita di Ozzy ovvero: “Ozzy: La Storia” di Ken Paisli (riaggiornata dopo la morte di Ozzy). Mentre sto ascoltando la presentazione di quel libro, però, non mi ricordo più chi, se proprio Enrico Silvestrin od uno dei suoi ospiti, invita a leggere l’autobiografia di Ozzy, ovvero “Io sono Ozzy” che viene definita “una delle più divertenti autobiografie del rock”, che ho acquistato al volo in formato e-book.
Ricordo che ho iniziato a leggerlo una notte, subito dopo essermi messo a letto, con l’idea di “leggo finché non mi prende sonno” e poi…
Non riuscivo a staccare gli occhi dal libro e facevo una fatica enorme per evitare di sbottare in risate fragorose che avrebbero svegliato di soprassalto mia moglie, che si era addormentata poco dopo che avevo iniziato a leggere, al punto che, anche se bloccavo la voce, il mio corpo tremava letteralmente per la voglia di ridere per quello che stavo leggendo.
Di fatto penso sia il secondo tra i libri che ci ho messo meno tempo a finire di leggere in tutta la mia vita (secondo solo a “Cacciatore di Androidi” di Philip K. Dick, letto nelle 17 ore di treno che ho fatto da adolescente per andare un anno in vacanza in Calabria).
Al di là degli aneddoti, degli eccessi e di tutte le traversie raccontate nel libro, sono state due le caratteristiche che mi hanno colpito più di tutto: il livello di sincerità, tanto disarmante quanto spietata nei suoi stessi confronti, con cui Ozzy ha raccontato tutti gli episodi, dai più surreali ai più tragici; e poi la spontaneità che viene fuori quando Ozzy racconta quello che decide di fare.

È proprio mentre leggo il libro che mi rendo conto di una cosa: tutte le notizie e le interpretazioni che volevano Ozzy come un burattino nelle mani di Sharon che voleva monetizzare su qualsiasi cosa facesse erano sbagliate.
Ozzy, nella sua carriera, ha sempre deciso le cose d’istinto perché, in quel momento, era convinto di quel che faceva, anche se poi, quando si trovava a dover convivere con le conseguenze di quella scelta, cambiava idea e tornava sui suoi passi.
Esempio perfetto è stato il suo primo ritiro dalle scene. Con una diagnosi (poi rivelatasi errata) di sclerosi multipla, nel 1992 Ozzy annuncia il “No More Tours”, tour di supporto a No More Tears, come l’ultimo tour prima del suo ritiro dalle scene. Lui ne è assolutamente convinto e, di fatto, si ritira.
Solo che, nel periodo dopo la fine del No More Tours, quando la sua salute stava migliorando, gli arriva addosso una noia pazzesca.
Ora io me lo immagino Ozzy pensionato che si annoia a morte. Solo che, invece di sfogarsi andando in giro a guardare i cantieri, lui chiede a sua moglie se può trovargli un posto per un concerto in un festival estivo per rimettersi in gioco perché, come scrive nel suo libro,
quello che faccio per vivere non è un lavoro. O se è un lavoro allora è il migliore del mondo, non ci sono cazzi che tengano.
Risultato? visto che il Lollapalooza rifiuta l’ingaggio di Ozzy, allora Sharon decide di creare un proprio festival: l’Ozzfest.
E così vale anche per il reality “The Osbournes”, un qualcosa che ha deciso di fare in modo consapevole, mettendo in chiaro fin da subito che, se lo show avesse messo in pericolo la sua famiglia, non c’avrebbe messo un minuto a chiudere il tutto.
Ora io non ho mai guardato neanche un episodio di “The Osbournes” e mi fa male pensare che ci siano persone che lo associano al quel reality dove mi è stato detto che fa spesso la figura del vecchio zio rimbambito, lui che era stata una delle figure di cui i perbenisti avevano avuto più paura in assoluto, ma leggendo il libro ho capito perché ha scelto di farlo e, per come lo racconta, ho anche capito come l’ha vissuto.
Alla fine del libro ho sentito di aver capito chi fosse realmente Ozzy, per la cui vita ho trovato una definizione splendida in una frase di una canzone cantata in dialetto laghèe che, tradotta in italiano, suona così: “Vita storta, senza filtro, sistemata col martello”.
Il “Back to the Beginning”: dall’annuncio all’esibizione.
Quando, a febbraio di quest’anno, esce la notizia del Back to the Beginning allo stadio Villa Park di Birmingham, io sapevo già che non ci sarei andato (avevo già in programma, come mega evento dell’anno il concerto del trentennale degli Ayreon a Tilburg) ma ero anche convinto che, qualora ne avessero fatta un’edizione di DVD o Blu-ray, l’avrei acquistata di sicuro.
Il Back to the Beginning voleva essere l’ultimo concerto con cui Ozzy avrebbe dato l’addio alle scene che, per l’occasione, aveva riunito in un festival di un’unica giornata molti dei nomi più importanti della scena metal e, come ciliegina sulla torta, aveva anche programmato un’ultima esibizione con la formazione originale dei Black Sabbath.

Il problema era che Ozzy, nella sua carriera, aveva già dato l’addio per ben 2 volte: la prima nel 1992 (di cui ho già accennato prima) e la seconda nel 2017 quando ha fatto il tour chiamato “The End” con i Black Sabbath e, quindi, i podcast dedicati al metal che ascoltavo, quando parlavano dell’evento, continuavano a tacciarlo come “l’ennesima trovata di Sharon per tirar fuori soldi da Ozzy”, o chiedevano “ma lasciatelo in pace, povero Ozzy, che non si regge più in piedi” e amenità varie. Eppure io avevo la sensazione che, invece, fosse lui a voler dare l’ultimo saluto al suo pubblico e che lo volesse dare proprio lì, a Birmingham, sua città natale e luogo da cui era partita la sua carriera durata più di 50 anni.
Dopo che c’è stata quella giornata, in rete, ho avuto modo di vedere l’esibizione che ha fatto riproponendo alcuni dei brani più famosi della sua carriera solista ed è stato lì che ho capito che la mia sensazione era giusta.
Il vederlo su quella sorta di trono, messo lì perché veramente non riusciva a tenersi in piedi, ma che muoveva le gambe e i piedi al tempo della musica, che incitava il pubblico battendo le mani e che riusciva anche a cantare i suoi pezzi in modo ancora dignitoso, rendendoli ancora belli da ascoltare un’ultima volta dal vivo non lasciavano dubbi sulla passione per la musica e sull’amore per il suo pubblico che Ozzy trasmetteva e, il momento in cui ha introdotto una delle sue canzoni con quel “non avete idea di quello che provo ora” dopo aver spiegato di essere stato costretto a letto dalla malattia per anni, è davvero diventato il manifesto di un addio che, purtroppo, sarebbe stato definitivo solo 17 giorni dopo con la sua morte.
Addio Ozzy. La tua musica mi ha ispirato per decenni e mi ha regalato tante di quelle emozioni e di quegli spunti su cui ho potuto riflettere e crescere come persona che non riesco a quantificare.
Sappi solo che ce l’hai fatta, Ozzy. Non sei morto come un uomo comune, ma come quella leggenda che hai meritato di essere.
Categorie:Ispirazioni, Vibrazioni emotive
